Benvenute e benvenuti su Duty Free, la newsletter di A\polide. In queste prime uscite vogliamo portarvi dietro la genesi di questo progetto, attraverso immagini, idee e vissuti.
Una sera ci siamo seduti intorno al nostro tavolo virtuale, ci siamo guardati da telecamera a telecamera e ci siamo chiesti a vicenda: perché sei qui? Cosa vuol dire a\polide, per te? A cosa ti fa pensare?
Ci siamo dati cinque risposte diverse, e ci piace così. Quella che leggete oggi arriva da Martina.
“Amo e odio. Una tensione dialettica segna il mio essere nel mondo, un pasoliniano scandalo della parola o, forse, la fecondità di un contrasto irrisolto. Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo.”
Strappare le proprie radici e innestarle altrove comporta un processo molto simile a quello delle cinque fasi del lutto. Con la perdita del terreno da sotto i piedi, l’organismo-pianta tenta di occultare la sofferenza generata dallo sradicamento [1. rifiuto]; ma la pianta per natura è votata alla crescita e all’allungamento e presto si rende conto che sopprimere non è una sua dote innata. Si crea ambivalenza tra l’istinto di restare e il bisogno di innestarsi altrove; ma un altrove dai contorni definiti non c’è, allora monta la [2. rabbia], e quando questa compie la sua parabola, scolorisce e diventa premessa di una nuova condizione, una mediazione tra radici perdute e ipotetici innesti [3. patteggiamento]. Le strade dell’a\polide sono infinite e quando questo svolta l’angolo, dietro vi ci trova acquattata la tristezza, pronta a dare il conforto effimero di una spalla su cui piangere [4. depressione]. Ed è proprio lì, tra le braccia di emozioni estreme che la ragione [5. accettazione] appare e ci salva. Cosa succede dopo? Chiederete voi.
Da una prospettiva artistica l’a\polide che è in me si esprime in una mescolanza di finzione letteraria e diario privato, fotografia pura e collage di immagini, citazioni e dispacci dal quotidiano. Una pacifica dissolvenza di parole in visioni.
In questo primo contributo sarà la finzione a introdurvi nel mio universo sradicato.
Insalata di porci
[Una finzione quasi vera]
Padova, Luglio 2056 - Ricordando il futuro
Questa città si fonda su un precario equilibrio tra sottrazione e addizione: il verde scompare, malta e calcestruzzo ne riempiono il vuoto; le aule studio vengono rimpiazzate dai call center, gli scaffali delle librerie fanno posto ai tavoli da bar; giovani studenti se ne vanno, vecchi professori rimangono. Solo le chiese stanno ferme dove sono, al massimo vengono ristrutturate e omaggiate di panchine attorno ai loro perimetri, dove potenziali anime fresche trovano redenzione e riposo nelle lunghe mattinate estive.
Su una di quelle panchine può capitare di trovarvi, a stagioni alterne, una visitatrice intenta a porsi certe domande guardando certi dettagli. Ad esempio, la potremmo sorprendere a meditare sul futuro di quel fiore di tarassaco apparso tra le crepe del marciapiede e, in un guizzo emotivo, fantasticheremmo insieme a lei sull’avvenire di quelle radici tanto forti, magari comparandole alle storie della gente che gli passa accanto. Osservando piedi e ruote, gambe e pedali, scopriremmo i segni della città incisi sull’andatura dei suoi abitanti, che hanno imparato a camminare cauti sopra le scivolose lastre di marmo dei portici, e a pedalare sbilenchi in bicicletta per schivare i sampietrini infortunistici. Noteremmo la differenza tra cittadini e foresti, che si distinguono per la maniera di ruotare colli e teste per scovare particolari che la strada ha da offrire: un palazzo storico con un’architettura raffinata, la vetrina di un negozio con i prezzi a quattro cifre, un cocktail club di recente apertura. La presenza di tali elementi verrebbe enfatizzata da un allungamento del busto del foresto, mentre una flessione svogliata dell’autoctono ne evidenzierebbe l’inerzia dell’abitudine.
Lo sguardo tornerebbe al fiore e alla sua vicenda, che non importerebbe a nessuno, tranne alla persona che ha di fronte. Né il fiore né i passanti sanno che quella donna, in tempi lontani, è stata una loro concittadina; ma ora lei occupa il ruolo di expat, che è comunque un foresto, ma di serie A. Attraverso le sue lenti polarizzate, acquistate in altre latitudini, guarderemmo la città con occhi a tratti vergini a tratti disillusi. L’ingenuità ci porterebbe a vagheggiare sulle imprese ribelli del tarassaco, che sfida la forza del cemento, mentre il disincanto ci farebbe constatare che il clima, probabilmente, non gli consentirà una vita longeva. La visione romantica dell’espatriata lascerebbe posto a un sentimento che nella scala di nostalgia si colloca nell’area deputata alle mancanze, quindi ai difetti. La rabbia monterebbe veloce, e andrebbe a scrivere parole scurrili nel suo curriculum di frustrazioni. La donna farebbe una carrellata dei sinonimi con cui la pianta è conosciuta, da dente di cane a soffione e piscialletto, fino al meno usato insalata di porci, e il fastidio, già protagonista della silenziosa polemica interiore, andrebbe a distillare nuovi rancori per la città che l’ha esiliata a colpi di partite IVA a prezzi da orefice e stipendi legati col guinzaglio. Riserverebbe un pensiero malvagio anche agli abitanti, che immaginerebbe a balneare su un mare di letame, con zampe tozze e grugni insudiciati. Il filo dei pensieri farebbe tre volte il giro su sé stesso, finché un irrisolvibile garbuglio non vi metterebbe fine. A quel punto strapperebbe il gambo dal suolo, in un gesto sia goffo che violento, di quelli riconducibili ai capricci d’infanzia, quando tutto poteva essere rotto e divelto e gettato, senza giustificazione.
Con le foglie a penzoloni tra le dita si accorgerebbe che, in quel breve lasso di tempo, la città l’ha ignorata e ha proseguito la sua evoluzione: una gru ha continuato a caricare mattoni sul tetto di un condominio, le aiuole sono state annaffiate, i fiori marci estirpati e sostituiti, una buca sull’asfalto è stata rattoppata con doppia gettata di bitume, una fila di pioppi è stata piantata nell’argine arso dal sole.
Prima di congedarsi, la visitatrice prenderebbe un minuto per arieggiare i polmoni, per l’ultima volta, con i profumi e gli odori che un tempo le sono stati familiari. L’inalazione sarebbe più breve del previsto, non tanto per l’umidità e il puzzo di benzina, ma per via di uno starnuto, sintomo di un episodio allergico di cui il polline si è reso responsabile. La poetica della natura che cresce ovunque vittoriosa si sbriciolerebbe tra le sue mani, in un grumo di petali e di stami, e prenderebbe posto nella lunga lista di sottrazioni e addizioni che da sempre tiene in piedi le fondamenta del luogo in cui è cresciuta.
L’espatriata non laverà le mani prima di imbarcarsi sull’aereo, e porterà le sue stigmate verdi come un souvenir nel Paese adottivo. Nel suo monolocale d’oltremanica con affitti da reggia, guarderà i palmi scolorire e la rabbia farsi ricordo. Comincerà a tracciare un’idea vaga della città in cui vorrebbe abitare, e lascerà alla memoria il compito di edulcorare i ricordi della città in cui forse non farà più ritorno.
“Nel frattempo crescere di nuovo dentro di sé imparare a camminare per città straniere / smettere di fuggire correre volgersi indietro / Dobbiamo accordare con precisione i nostri passi a quelli altrui / vincere la vertigine orientarci nello spazio / imparare a parlare lingue straniere di giorno / di notte piangere esclusivamente nella propria lingua.”
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Collettivo A\polide