Da quando ho iniziato la mia avventura con Rivista Apolide, mi sono chiesta sempre più spesso: "Cosa significa casa, quando sei lontano dai tuoi luoghi di origine?". A oggi, la domanda rimane sospesa in una costellazione di altri interrogativi, che mi hanno portata a ragionare sul concetto di radici e innesti.
Lo sguardo a\polide è per me una questione affettiva, il fil rouge di tante vite, riflessioni e incontri che esplorano l’esperienza umana da differenti prospettive. Le tre storie che compongono questo collage narrativo – chiamato "Una casa tutta per sé" – nascono dal mio archivio famigliare, che ha una lunga cronologia di migrazioni in diversi continenti. Le ho plasmate con l'aiuto della finzione, sia per esperimento letterario che per salvaguardare le identità dei protagonisti*. Le ho assemblate con l’intento di trovare un concetto univoco di casa, ma nelle settimane di ricerca mi sono cresciute tra le mani così tanto da tracciare una geografia sentimentale più complessa.
Vi lascio le coordinate, voi fate buon viaggio.
(*Gli estratti dalle corrispondenze sono nella loro versione originale, compresi gli errori di battitura e quelli linguistici)
Collage Numero Uno
Radice: Germania
Innesto: Italia
1973
Anni Settanta. Germania Ovest. Freddo che taglia, industrie che inghiottono uomini, condomini coi termosifoni che s’ingolfano e sputano aria stantia.
BJ vende. Fa il commesso viaggiatore, dicono. Dicono bene. Vende quello che passa: caffettiere, viti, serrature, coltelli da cucina, ombrelli. Cataloghi stampati a Lione, prezzi scritti a mano in sterline.
Sulla valigetta: una spilla della Union Jack, appartenuta al padre soldato.
Sotto la valigetta: polvere di ferro, fango, orina secca da stazione.
Nato ad Amsterdam. Nazionalità olandese. Passaporto inglese. Madre fiamminga. Padre scozzese. Cinque lingue in bocca. Nessuna patria.
Pensione in centro. Due stanze. Una per dormire. Una per mangiare. Stufa a carbone. Lavandino fuori dal bagno. Proprietaria ostile.
Una volta al mese: paga. Sempre in contanti. Una volta ogni due settimane: lettera. Sempre a lei.
Lei: Elda.
Professoressa di lettere. Padova. Liceo classico.
Adora le poesie di García Lorca. Detesta i libri con le orecchie.
Scrive in corsivo inclinato. Firma con una E che sembra una farfalla. Profuma di carta e le sue carte profumano di Miss Dior.
BJ la conosce in Grecia nel ‘72.
Lui chiede: "Do you speak english?"
Lei alza gli occhi. Dice: "No! Italiano?”
Lui risponde: “Poco. Francese?”
Lei sorride: "Oui!”
Scambiano indirizzi. Poi lettere. Promesse. Il matrimonio. Una casa tutta per sé. Un figlio o due. Un dalmata, certamente.
BJ pianifica. Due camere. Due bagni. Un tavolo largo. Un ingresso con attaccapanni. Un divano non troppo morbido. Una libreria per lei. Una scrivania per lui. Posto auto se possibile.
Gira per la Germania con la mappa di Padova piegata nel portafoglio. Cerchia i quartieri. Scrive cifre. Calcola. Risparmia. Beve moderatamente. Non fuma. Vende, qualsiasi cosa gli possa garantire una vita dignitosa in Italia. Il sabato va in posta. Compra francobolli per la corrispondenza estera. Sceglie le buste buone, quelle che potrebbero piacere a lei.
Dalla sua stanza a Goslar scrive:
D’avere un mini – appartamento con te, mi piace tanto. (…)
Mi interessa sapere il resultato con il consolato inglese di Venezia (registrare nostro matrimonio anche con loro) e anche quel del municipio (ottenere i nostri documenti originale di nascita.)
Sulla lettera lo chiama appartamento, che poi uno dice "appartamento", ma vuol dire: basta letti singoli in stanze che sanno di odori altrui, basta amore apolide, basta vita in sospeso. Vuol dire nuovi innesti.
La posta parte. Elda risponde puntuale. Le lettere si assomigliano: parlano tutte di futuro, da una lingua all’altra. Citazioni in latino. Conti in lire.
Lei manda una foto con la classe. Lui una della Germania Ovest.
BJ aspetta. Guarda i giorni passare. Ogni settimana più leggero. Ogni notte più sveglio. Ogni chilometro più vicino.
La casa non c’è ancora. Ma ha già deciso dove mettere il tavolo.
Radice: Italia
Innesto: Olanda
2024
Il tavolo, un allungabile in faggio laccato, è al centro del salotto. Sopra, Anton ci appoggia delle chiavi. Le chiavi della casa dei suoi. Quella che ha trattenuto dentro mezzo secolo di respiro di BJ e di Elda, e che ora aspetta il figliol prodigo: Anton, emigrato in Inghilterra. Anton, che ha imparato a dire flat invece di appartamento. Che ora torna in Italia, a casa dei suoi, e deve svuotarla. Deve scegliere cosa resta e cosa no. Ma cosa si butta? Cosa si tiene? La scatola con le lettere? Quella con le ricevute dell’Enel del ’84? Il posacenere a forma di gondola preso a Venezia nel ’78?
Intanto passa le mani sugli oggetti e gli arredi. Porcellane olandesi. Posate di argento. Souvenir di gite organizzate. Fascicoli dell’INPS. Esami del sangue del ’98. Divano sfondato. Coperta sopra, sempre la stessa da almeno vent’anni. Cuscini cuciti a mano. Telecomandi senza pile. Televisore catodico, antenna sporgente. Sedie impagliate. Farina del 2020. Riso con insetti. Zucchero a velo fuso in blocco. Teglie annerite. Una moka; tre, in realtà, solo una usata. Letto matrimoniale con lenzuola in flanella. Materasso duro, cuscini a punto croce. Armadio a sei ante. Collezione di vestiti estivi dal 1982. Scarpe ortopediche. Scarpe col tacco. Lettere. Bottoni. Centrini. Santini. Tubi. Prolunghe. Lampadine non funzionanti. Una sedia con sopra una busta con altre buste. Dentro: altre buste.
Troppi oggetti, nessun valore. O tanto, se li hai visti in funzione. Se li hai toccati. Se erano tuoi. Se erano loro. Adesso sono solo peso. Da sollevare, inscatolare, buttare, donare. Non si misurano in chili, ma in anni di accumulo. E ogni cosa parla. Dio, quanto parlano le cose. Parlano i calendari. Fermi sul mese di luglio 2024, quando Elda è mancata.
Anton ha la nausea. La casa, svuotandosi, si fa più piena. È multistrato, come il terreno: più scavi, più esce materia.
E poi, l’urna. Con le ceneri di BJ. Rimasta in un angolo a presidiare l’entrata, come se aspettasse un ultimo viaggio, l’innesto finale.
Anton fa quattro scatole. Una per le carte. Una per le foto. Una per i soprammobili. Una per le cose che non si sa, magari un giorno potrebbero tornare utili.
Carica la macchina. Bagagliaio pieno. Il padre sul sedile posteriore.
Italia, Germania, Olanda. Chilometri. Caselli. Aree di servizio. Code. Incidenti sfiorati per miracolo o per bravura. Un caffè da quattro euro. Notti in motel.
Arriva. È mattina presto nel Mare del Nord. La spiaggia è vuota, vento freddo, brucia il naso. Sabbia bagnata che non fa rumore sotto le scarpe. Apre l’urna. Aspetta. Non sa se è giusto. Non sa se è legale. Non sa niente, ma lo fa perché questa è la volontà di BJ.
Un po’ di cenere si attacca al maglione, un po’ va in mare, un po’ torna indietro e gli resta sulla giacca. BJ è ovunque e da nessuna parte. È tornato a casa.
Collage Numero Due
Radice: Italia
Innesto: Brasile
1992
Bettino. Nato nel '57. Veneto basso. Neanche Veneto. Più giù. Più nebbia. Casolari, zanzare, pioppi. Scuole grigie. Padri poveri e muratori. Madri sottomesse e silenziose.
Nel ’92 prende e parte. Brasile. Bahia.
Motivo ufficiale della partenza: cercare fortuna.
Motivo reale: trovare una casa dove la gente non ti chiede di chi sei figlio.
A Bahia è arrivato con l’idea che il mondo sia più largo del Veneto, e che forse, magari, la felicità è solo questione di clima.
All’inizio ha fatto tutto. Ha viaggiato, ha lavorato, ha pensato a come viaggiare senza dover lavorare. Nel frattempo, Bettino ha imparato il portoghese, ha dimenticato la grammatica italiana, si è innamorato tre volte. Una volta seriamente, le altre due per non restare indietro. Ha comprato una bifamiliare con veranda, amaca e vista sul mare. Nel giardino ha messo un randagio, e l’ha chiamato Pasolini.
Nel frigo: birra locale, frutta in quantità, e un barattolo di giardiniera ormai parte del paesaggio batterico.
La nostalgia arriva, ma educata. Non bussa.
Ogni tanto Bettino telefona alla sorella, che vive a Padova, e gli dice: “Qui sempre uguale, tu invece stai benone lì al caldo eh?”. E lui non risponde che a volte preferirebbe la nebbia, ma solo a volte. Al fratello minore invece scrive:
Io qui in Brasile sto bene sono più felice che in Italia, ma non posso essere completamente felice. Mi mancano gli affetti gli amici i fratelli, i miei ricordi sono lì.
Bettino ha capito che casa non è un tetto, è un tempo. Un ritmo. Un modo di camminare per strada senza che nessuno ti chieda dove stai andando.
L’Italia è lontana. È una lingua nel sonno. Un sogno ogni tanto. Una bestemmia detta in dialetto quando si rompe qualcosa. Casa è qui. Casa è dove non ti cercano più. Dove si vive di ricordi e nostalgia. Ma si respira un’aria diversa. Più densa e più liquida.
Radice: Brasile
Innesto: Italia
2025
Ha sessantotto anni ora, Bettino. Trentatrè passati in Brasile. Trentacinque in Italia prima. Fa i conti con le mani. Metà di qua, metà di là. Più o meno. Dipende da dove conti.
Ad aprile, come da usanza recente, prende un volo São Paulo–Milano. Tratta notturna. Piena di turisti. Valigie gonfie. Dialetti in bocca. Facce miste. Sudore e nostalgia. Saudade, per gli intenditori.
Atterra. Fila passaporti. Documenti italiani ancora validi. Il funzionario guarda la foto. Poi lui. Poi dice: "Bentornato". Ma non è un bentornato vero. È meccanico, di servizio.
Affitta una macchina. Va giù in Pianura. Cemento e afa. Posti dove il tempo si è fermato. Ma non per bellezza. Per inerzia, per stanchezza.
Riapre casa sua, la seconda. La prima, ufficialmente, è ancora in Brasile.
Si sistema. Lenzuola nuove. Tende da lavare. Un mese passa, poi due, poi sei. Tempo di tornare a Bahia. Casa sua, così dice. Così dicono i fratelli.
Bettino da cinque anni fa due stagioni: Italia in estate, Brasile in inverno. Un ciclo. Un cerchio. Un pendolare tra due emisferi. Uno spatriato.
Forse l’anno prossimo torna in Italia anche a dicembre. Forse no. Dipende dai reumatismi. Dal cuore. Dagli eventi. Dalla voglia. Dalla vita.
Casa, pensa, è dove non devi spiegare niente a nessuno. Né perché parti, né perché resti.
Collage Numero Tre
Radice: Italia
Innesto: Filippine
1995/2025
Jipapad, Dic 17, 1995
Lettera di Vittorio B.
I miei migliori auguri di Buon Natale e un Felice Anno Nuovo. Spero arrivino questi auguri prima della fine dell’anno ma penso sia difficile. Difficile, dico, perché siamo presi male in questo tempo. Tante calamità ci hanno colpito. Non c’è televisione, non c’è radio che si avvicini a noi. Quello che succede qui da noi resta fra noi. Il governo sì e no che arrivi a saperlo così di sfuggita. Ci avviciniamo al duemila, il governo ha una infinità di programmi per rendere le Filippine la più importante nazione dell’Est e intanto noi siamo tagliati fuori da tutto e senza ancora un segno di interesse.
Da Aprile a Luglio siamo stati colpiti da una serie di scosse di terremoti (più di tremila) dal terzo all’ottavo grado Ritcher, la più lunga è stata sui trenta secondi, con forti boati da far rabbrividire, seminando panico e terrore su tutti i villaggi. (…) Col tempo ho fatto l’abitudine alle scosse. Quando arrivavano di notte questi boati me ne restavo tranquillo a letto. Il letto si spostava anche di mezzo metro e danzava sul pavimento della camera. Non facevo un movimento, mi giravo dall’altra parte per continuare a dormire. Anche la nostra casa, vecchia e mezza diroccata, ha tenuto. (…)
Dopo il terremoto l’invasione delle formiche specialmente le termiti e continua ancora adesso. Formiche da per tutto. Stanno mangiando la casa. Ho usato veleni, disinfezioni, fuoco, benzina, non c’è niente da fare. Da un momento all’altro mi trovo le pareti della casa nere di termiti, un momento dopo sono sparite tutte. Neanche il tempo di prendere il DDT, non si vedono più. Migrano velocemente. La tavola da mangiare, il cibo, lo zucchero, qualsiasi cosa si lasci fuori, in un momento, migliaia di formiche invadono. Il letto, specialmente durante la notte, che fastidio, il sentirsi queste formiche che camminano. (…) Per le zanzare c’è la zanzariera ma per le formiche non c’è niente. (…)
Nello stesso tempo è stato seminato il terrore tra i villaggi non solo a Jipapad ma di tutta la zona, la presenza di una banda, calcolata sul centinaio di persone, con lo scopo di sequestrare soprattutto bambini per trapianti di organi umani all’estero e lo sgozzamento di persone per estrazione di sangue per trasfusioni. La disperazione di intere famiglie. La paura di camminare specialmente da soli, anche di giorno. (…)
In questo periodo siamo da più di tre mesi sotto le piogge, i tifoni e le alluvioni. Solo in Dicembre sono già venute quattro alluvioni, pensate i problemi della fame, delle malattie e del freddo. (…) In casa, perché vecchia e mezza rotta, piove dentro da per tutto. Il primo è il vento che spinge dentro l’acqua per le finestre; buttano acqua come grondaie. Alle volte abbiamo il piano terra con l’officina meccanica e gli uffici, con dieci centimetri di acqua. Libri sedie tavoli tutto bagnato.
Vittorio ha ventinove anni nel Novantacinque, quando arriva nelle Filippine.
Jipapad, nord est, entroterra. Fango. Sole. Bambini scalzi.
Ora di anni ne avrebbe quasi sessanta. Il corpo sarebbe lo stesso, solo più lento. Le mani uguali, solo più scure. La fede uguale, solo più slavata.
La missione: tre stanze, una cappella, un magazzino pieno a metà, una jeep rotta, una radio a batterie. E poi gente. Tanta gente. Tanti problemi. Fame, malattie, domande. Risposte poche. Ma chi le ha?
Terremoti, invasione di formiche, bande criminali. Si distrugge e si ricostruisce sempre. Nessuno muore. O sì, ma non nei registri ufficiali.
Alluvioni. Pioggia orizzontale. Giorni senza luce. Bambini spariti.
Restare. Perché? Perché sì. Perché ormai. Perché altrove non è meglio. Perché qui ha scavato, sepolto. Ha visto crescere. Ha tenuto mani, ha chiuso occhi. Ha preso peso. Ha perso l’italiano. Ma ha trovato una casa.
Vittorio non è un santo. Non è un eroe. Non è solo un missionario. È uno che è rimasto. Tutto qui.
Casa, per Vittorio, non è dove sei nato. Non è dove ti aspettano. Non è dove parlano la tua lingua. Casa è dove smetti di contare i giorni. Dove rimani a letto durante una scossa sismica, e sai già cosa devi fare. Dove ti chiamano padre anche se non lo sei, e tu non correggi perché non aiuterebbe nessuno. Perché sta bene così.
Casa è dove se piove spalanchi le porte, perché l’acqua, alla fine, la togli con lo straccio. E anche la vita, pare.
Casa è dove nessuno ti chiede più chi sei. Perché lo sanno.
Casa è dove se muori, ti seppelliscono con le mani. E poi piantano una croce sopra.
Riposa in pace ora Vittorio, sotto il peso delle sue croci a Jipapad.
Fine.
Per ora.



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Collettivo A\polide